martedì 31 maggio 2022

Assunzione di Maria

L'Assunzione di Maria
L'Assunzione di Maria al cielo è un dogma di fede della Chiesa cattolica, secondo il quale Maria, madre di Gesù, al termine della sua vita terrena, andò in paradiso in anima e corpo.

Questo culto si è sviluppato a partire almeno dal V secolo d.C., diffondendosi e radicandosi nella devozione popolare. Il 1º novembre 1950, papa Pio XII, avvalendosi dell'infallibilità papale, proclamò il dogma con la costituzione apostolica Munificentissimus Deus con la seguente formula:
«La Vergine Maria, completato il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». 
Queste parole volutamente non chiariscono se l'Assunzione di Maria sia stata preceduta o meno da sonno profondo o da morte naturale (Dormitio Virginis, espressione che in effetti può riferirsi sia ad un sonno che alla morte naturale): pertanto la Dormizione di Maria non è oggetto di dogma, mentre la sua glorificazione in corpo ed anima è parte integrante della fede della Chiesa cattolica.

È una solennità celebrata il 15 agosto da tutte le Chiese cristiane (cattolici, ortodossi e non solo) che accettano questo articolo di fede e - corrispondendo per la Vergine a ciò che per gli altri santi è il dies natalis (transito) - costituisce la festa principale della Madonna, la solennità mariana per eccellenza dell'anno liturgico. Secondo una pia credenza, in questo giorno Dio elargirebbe agli uomini abbondanti grazie e benedizioni. Secondo questa tradizione, Maria, la madre di Gesù, terminato il corso della vita terrena, fu portata in Paradiso, sia con l'anima sia con il corpo, cioè fu assunta, accolta in cielo.

L'Assunzione di Maria non implica necessariamente la morte (tesi della Dormizione), ma neppure la esclude. L'Assunzione, nel pensiero cattolico, è un'anticipazione della risurrezione della carne, che per tutti gli altri uomini avverrà soltanto alla fine dei tempi, con il Giudizio universale. È quindi differente dall'approdo in Paradiso riconosciuto ai vari Santi, i quali hanno raggiunto la beatitudine celeste solo con l'anima. Questo, tra l'altro, giustifica le numerose apparizioni di Maria nel corso del tempo in tutto il mondo, che la Chiesa cattolica, nei casi in cui le riconosce credibili, lo fa anche riguardo al fatto che la Madonna appare realmente in carne e ossa.

L'Assunta è un dipinto di Tiziano, databile al 1516-1518 conservato
nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia

Al riguardo, non è contraddittorio il fatto che Maria sia apparsa nei vari secoli e continenti con aspetto fisico differente: 
la Chiesa cattolica crede e professa che il corpo con cui i redenti vivono la beatitudine eterna è un corpo 'glorificato', e non lo stesso corpo con cui le persone conducono la loro esistenza sulla terra. Il corpo glorificato non è soggetto alla relativizzazione spazio-temporale né alla caducità così come a nessuna legge fisica. 
La Chiesa professa che Maria è, con Gesù, l'unica persona in tutta la storia dell'umanità a essere ufficialmente riconosciuta assunta in cielo (quindi in corpo e anima) già ora, prima della seconda venuta del Cristo. Ciò è possibile perché Maria, secondo la Chiesa, è stata l'unica persona a essere preservata dal peccato originale che ha coinvolto tutta l'umanità. Per questo, la tradizione, e poi il dogma che ne è scaturito, dell'Assunzione di Maria sono in stretta connessione logica con i loro corrispettivi inerenti all'Immacolata Concezione, secondo cui appunto Maria fu preservata dal peccato originale alla sua nascita, anche qui unica con Gesù tra l'umanità post peccato originale, anche se la tradizione dell'Immacolata Concezione è successiva nel tempo rispetto a quella dell'Assunzione, e anche più elaborata e discussa teologicamente. Tuttavia, paradossalmente, il dogma dell'Assunzione di Maria è successivo a quello dell'Immacolata, anzi, è in ordine di tempo, l'ultimo dogma della Chiesa cattolica, essendo stato proclamato da Pio XII solamente il 1º novembre 1950, quasi un secolo dopo quello dell'Immacolata Concezione, proclamato da Pio IX nel 1854.



La parola “assunta” sta proprio ad indicare l’essere “accolta”, in questo caso nel regno dei cieli, perché stando a questa tradizione il trasferimento di Maria in Paradiso fu completato tanto dalla sua anima quanto dal suo corpo. La Chiesa non ha mai stabilito se prima dell’Assunzione, Maria fosse morta oppure se si trovasse in uno stato di sonno o trance (tesi chiamata della Dormizione).

Gesù era stato il primo ad Ascendere al regno dei cieli, e dopo di lui solo la sua Beata Madre ha avuto lo stesso onore. Questo perché Maria è priva del peccato originale, al contrario del resto dell’umanità. L’Assunzione di Maria si ritrova quindi fortemente legata al dogma dell’Immacolata Concezione, che stabilisce la purezza della Vergine Beata, nata priva del peccato originale per poter poi accogliere in grembo il Salvatore. 
La più antica testimonianza della dottrina dell’Assunzione di Maria si trova nel Liber Requieie Mariae (IV secolo circa), mentre in diversi altri testi è stata riportata nel corso dei secoli.

Questo fatto non deve sorprendere: contrariamente al pensare comune, i dogmi più che essere imposizioni dall'alto ai credenti sono riconoscimenti e ufficializzazioni di credenze e tradizioni già diffuse nel seno della comunità della Chiesa; tra l'altro, spesso sono stati proclamati non per affermare un nuovo fatto di fede ma per difendere una tradizione già esistente da attacchi teologici ritenuti eretici. Riguardo all'Assunzione, l'antica tradizione, unanimemente accettata da parte della Chiesa cattolica, non necessitava di nessuna difesa, e quindi la relativa proclamazione del dogma è stata fatta solo nel XX secolo, sollecitata dalla pressione che la critica scientista moderna ha operato su tutti gli aspetti della fede cattolica. L'Assunzione di Maria è il quarto mistero della gloria nella devozione del Santo Rosario.


Definizione e proclamazione del Dogma
Il dogma cattolico è stato proclamato da Papa Pio XII il 1º novembre 1950, anno santo, attraverso la costituzione apostolica Munificentissimus Deus.

Papa Pio XII proclama la definizione dogmatica
dell'Assunzione di Maria il 1º novembre 1950

Si tratta dell'unico dogma proclamato da un Papa nel XX secolo. Questo è il passaggio finale del documento, con la solenne definizione dogmatica:
«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo. Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.» (Munificentissimus Deus).
 

Prima di proclamare il dogma Pio XII promosse una consultazione di tutti i vescovi cattolici del mondo, che espressero un parere favorevole quasi plebiscitario. Solo ventidue vescovi manifestarono qualche riserva. Giacinto Tredici fu l'unico vescovo italiano a esprimere parere contrario alla proclamazione del dogma dell'assunzione della Madonna, non perché non ne condividesse il contenuto, ma perché pensava che l'introduzione di un nuovo dogma mariano non fosse necessaria e avrebbe reso più difficile il dialogo ecumenico coi protestanti. Secondo alcuni teologi, la proclamazione di questo dogma sarebbe l'unica occasione in cui un pontefice ha fatto uso dell'infallibilità papale ex cathedra, definita formalmente nel 1870. La Chiesa riconosce che in questa specifica occasione il papa ha proclamato un dogma esercitando l'ufficio di pastore e dottore di tutti i cristiani, e quindi con il carisma dell'infallibilità (Notizie tratte da Wikipedia).


lunedì 30 maggio 2022

Molfetta (BA) - Maria SS. Addolorata


IL CULTO DI MARIA SS. ADDOLORATA A MOLFETTA

Presso la Chiesa del Purgatorio ha sede la Venerabile Arciconfraternita della Morte, da non tutti conosciuta con il titolo di Santa Maria del Pianto.
Questa denominazione è alla base di quella che è la principale attività di questo antico Sodalizio: il culto dei Dolori di Maria SS.
In tutti i periodi dell'anno infatti, questa chiesa è meta di tanti fedeli che si recano in visita alla Vergine, rappresentata dalle Sacre Immagini di Maria SS. Addolorata e di Maria SS. della Pietà, la prima opera dello scultore molfettese Giulio Cozzoli, la seconda di autore ignoto, ad eccezione del solo Cristo Morto giacente sul grembo della madre, che è invece dello stesso Giulio Cozzoli. 
E' a cura dell' Arciconfraternita della Morte che, durante il periodo Quaresimale, vengono svolte con grandissima solennità due antiche pratiche devozionali: il Pio Esercizio a Maria SS. della Pietà ed il Settenario della Beata Vergine Addolorata. Il Pio Esercizio a Maria SS. della Pietà si svolge nelle prime quattro domeniche di Quaresima, durante le quali viene esposta in chiesa la statua della Pietà.
Il Settenario della B. V. Addolorata, invece, inizia il quinto venerdì di Quaresima e termina il giovedì successivo.

Molfetta (BA) - Chiesa del Purgatorio

Il Settenario dell'Addolorata si svolge in quasi tutte le chiese della città, ma sicuramente il più seguito è quello organizzato dall' Arciconfraternita della Morte della Chiesa del Purgatorio, che, con giusta ragione, può essere definito un Santuario dei Dolori della Madonna.

Il Venerdì di Passione poi, mentre in mattinata si celebrano S Messe ogni ora, a partire dalle 6,00 per terminare alle 12,00 circa, nel pomeriggio si svolge per le vie della città la processione dell’Addolorata.

In realtà, così come a Molfetta la statua della Vergine è rappresentata, si dovrebbe parlare di Desolata, in quanto è questo "titolo" che prevede la Madonna accanto alla Croce, e non quello di Addolorata, essendo quest' ultima raffigurata da sola, senza Croce.

Ancora nella giornata del Sabato Santo viene portata in processione la Sacra Immagine della Pietà, preceduta dai personaggi principali della Passione di Gesù Cristo: S. Pietro, la Veronica, S. Maria Cleofe, S. Maria Salomè, S. Maria Maddalena e S. Giovanni.

Nel mese di Settembre, a partire dal lunedì successivo al rientro della Patrona Maria SS. dei Martiri al suo Santuario, è invece l'Associazione Femminile di Maria SS. Addolorata che cura il Sacro Settenario durante il quale viene esposta la sola statua della Vergine, senza la Croce ... quella che per definizione è l'Addolorata.

La Pietà
Questa statua è, in verità, solo per metà attribuibile a Giulio Cozzoli, in quanto il volto della Vergine, di autore ignoto, risale alla prima metà del settecento; suo è infatti il solo Cristo Morto, giacente sul grembo della Madre.

Molfetta (BA) - Madonna Addolorata, La Pietà (immaginetta)

Il volto della Madonna era così eccezionalmente irripetibile che nell’affrontare il problema del rifacimento delle statue dell’Arciconfraternita della Morte, Giulio Cozzoli non pensò mai di rifare l’immagine di Maria, rendendosi egli stesso conto della pregevolissima fattura di quella statua, autentica opera d’arte da salvaguardare e trasmettere ai posteri.
A parte il volto e le mani, questa statua consisteva, allora come attualmente, di un comune manichino vestito.

Del gruppo della Pietà quindi, il Cozzoli pensò invece di plasmare una nuova immagine del Cristo Morto, ed essendo un perfezionista, nonostante la giovanissima età, e volendo trasporre nell’arte quella che è la realtà più autentica, cominciò, con la complicità del guardiano del cimitero di Molfetta, a frequentarne la camera mortuaria per studiare la postura dei corpi inanimati nell’abbandono della morte.
In queste “macabre occasioni” egli elaborò gli schizzi che vennero alla fine tradotti in quel capolavoro che ora tutti possiamo osservare. In origine la statua della Madonna stava seduta su una cassa di legno ai piedi della Croce.
Il tutto poi, veniva avvolto nell’ampio manto nero della Vergine, dando l’impressione che la Croce fuoriuscisse dal dorso della Madonna.
Il Cozzoli corresse il difetto creando un ampio masso di cartapesta, distante dalla Croce recante la sindone e un reliquiario, su cui far sedere la Madonna. Il rifacimento del gruppo della Pietà porta la data del 1908. Il Cristo, riverso sulle ginocchia della Madre, ha l’atteggiamento immobile di un cadavere, non però la fissità statica, poiché si articola in tre pose riunite: a sinistra il capo arrovesciato, al centro il corpo dall’omero alle ginocchia, a destra le gambe pendenti. Un braccio è disteso sul grembo della Madonna, che ne stringe la mano; l’altro, ricadente all’ingiù, sfiora con l’indice il sandalo materno. Le lesioni inferte alla fronte dalla corona di spine, i lividi grumosi delle battiture, le escoriazioni causate alle ginocchia dalle cadute, i fori dei chiodi alle mani e nei piedi, la piaga aperta e sanguinante nel costato dal colpo di lancia, conferiscono alla statua verosimiglianza e compiutezza nei patimenti subiti da Cristo.


Il volto della Madonna, rigato di lacrime, subì appena un lieve ritocco. Lo scultore volle donargli una più intensa espressione di dolore: un viso di veemente splendore che rappresenta la Vergine al sommo dello strazio, impietrita, come disanimata dalla spada di dolore che la trafigge.
Quello che non tutti sanno è invece che, quando uscì per la prima volta la Pietà con in grembo il nuovo Cristo Morto, come scrive il Cav. Giuseppe Peruzzi nel suo manoscritto “La grande processione del Sabato Santo”: «Il giudizio popolare, non fu tanto favorevole, in quanto riscontrò nel nuovo Simulacro, un gigante, tenuto conto anche delle proporzioni della Madonna». Sempre il Peruzzi aggiunge che: «Il Cristo, essendo risultato di proporzioni e fattezze non conformi al naturale, il prof. Cozzoli, nell’anno del Signore 1928, sotto il Priorato del Signor Giuseppe Peruzzi, lo rifece impiccolendolo in proporzioni, conservando lo stesso volto e posa da bene armonizzare, con le proporzioni di Maria S.S.

Riuscì con questa riforma, un vero capolavoro, da tutti i cittadini e forestieri, molto ammirato».
Cosa indusse il Maestro Giulio Cozzoli a modificare il Cristo Morto della Pietà solo a distanza di venti anni dal 1908, anno della sua realizzazione?
Bisogna rifarsi ancora una volta a quanto riferisce il Priore Giuseppe Peruzzi, quando lo scultore Filippo Cifariello, in visita a Molfetta il 14 settembre del 1928 per la sostituzione della vecchia statua di S. Giovanni del Verzella, entrò nella “Stanza delle Statue” e vide la Pietà.
«Come entrò il Prof. Cifarelli, ebbe un momento di sbigottimento. Rivoltosi all’esponente, pronunziò queste precise e testuali parole, che qui mi piace letteralmente trascriverle:
“Presidente, chi è l’autore di quel volto Santo della Vergine SS. della Pietà?”. Fu immediatamente risposto dallo scrivente: “L’autore è ignoto, risale la Sacra Icone della Gran Madre di Dio ai primi del 1600, epoca in cui fu fondata la confraternita”. Il Comm. Cifarelli, rivolto alla Sua Signora, chiamandola in nome slavo, perché nativa di Breslavia disse: “Guarda quel volto Santo, oggi non so se vi potrà essere una mano di artista che saprà concepire un simile volto, espressione di immenso dolore, occhi arrossati pel gran pianto, colore del volto esterrefatto per i grandi patemi d’animo. Il Cristo, salvando il Cristo, è un facchino. Con quel soggetto, (rivolto alla Madonna) l’artista avrebbe potuto plasmare altro lavoro, a cominciare dalle fattezze, che rappresenta un gigante, se si volesse misurare con un centimetro, mentre secondo quanto raccontano i quattro evangelisti, Cristo era di proporzioni limitate”.

Ebbe molto a lodare la Veronica e la prima Cleofe, nel volto espressivo di desolazione e sconforto, il vecchio S. Giovanni del Verzella, per l’espressione degli occhi e le mani conserte in atto di preghiera, volendo invocare pietà e misericordia verso l’Onnipotente Iddio, per la più grande tragedia della umanità.
A tale dichiarazione erano presenti, oltre vari componenti la commissione, l’intera amministrazione, il Canonico Don Pietro Carabellese, l’ingegnere Sergio Giancaspro, il Commendatore Peruzzi ed altri.
Per quanto riguardano gli apprezzamenti fatti dal Comm. Cifarelli sul Cristo Morto, qualche persona fra i presenti nella Chiesa del Purgatorio, dovette riferire il tutto al Prof. Cozzoli. Quest’ultimo richiese al sottoscritto il Cristo, e lo rifece, accorciando il corpo e le gambe. Mantenne lo stesso teschio, i piedi e le braccia, che anche furono di molto accorciate. Il tutto a sue spese. uscì il nuovo Cristo Morto, in grembo alla Sua SS. Madre, la prima volta in processione, il Sabato Santo dell’anno 1928.
Si voleva da parte dell’amministrazione, offrire un compenso, non fosse altro, per le sole spese vive sostenute dal Cozzoli, ma quest’ultimo, da vero signore, rifiutò qualsiasi emolumento».
Il giudizio di Filippo Cifariello sulla sua opera, dovette talmente infastidire Giulio Cozzoli che, in occasione di quella visita a Molfetta, non volle nemmeno rivedere il suo vecchio maestro.
Sempre infatti, secondo quanto riferito da Giuseppe Peruzzi:
«Durante la giornata che il Comm. Cifarelli stette a Molfetta, chiese al sottoscritto ed altri, del suo discepolo Cozzoli, il quale avrebbe avuto piacere di salutarlo. Fu subito provveduto rintracciarlo, ma il Cozzoli, a mezzo dello stesso corriere, che andò a chiamarlo, non credette di venire, si scusò dicendo che era molto occupato e non poteva distrarsi dal lavoro di un solo momento». (Testo a cura del dott. Francesco Stanzione, tratto da "De Passione Domini Nostri Jesu Christi secundum Melphictam", Editrice L'Immagine, Molfetta 2015, Vol. 1).


Il Venerdì antecedente la domenica della Palme, un tempo chiamato di Passione, e che in Spagna viene definito Viernes de Dolores, dalle sei del mattino fino alle undici, nel Purgatorio vi sono S. Messe ogni ora. A mezzogiorno la chiesa viene chiusa e si procede alla preparazione della Sacra Immagine dell’ Addolorata; infatti alle ore 15,30 finalmente il portone viene spalancato per dare inizio alla tanto attesa processione. Precedono tre giovanotti in frak chiamati Stradari: essi aprono il sacro corteo.
Segue il palliotto, che è l’ insegna dell’ Arciconfraternita della Morte, nero con stelle in oro, indi la Croce con a latere i due fanali; questi simboli vengono retti da giovani confratelli incappucciati.
Subito dopo segue lo stendardo della Associazione Femminile di Maria SS. Addolorata, le Socie ed i Confratelli. Tutti reggono un cero. Gli Stradari sono preceduti dal quartetto di musicanti che esegue la stessa melodia della processione della Croce, di inizio Quaresima.

Molfetta (BA) - Addolorata (immaginetta)

Intanto la banda esegue nella mezzora che precede l’ uscita della Madonna le marce funebri “I funerali di A. Manzoni” e “Jone”. Poco prima delle 16,00 viene portato fuori il baldacchino, sorretto da otto confratelli, da sotto il quale, dopo essere stato innalzato, passerà il simulacro della Addolorata, portata a spalla da quattro confratelli incappucciati. Le note della marcia funebre “Sventurato”, del molfettese Vincenzo Valente, accompagnano l’ uscita della Vergine.
La processione si dirige subito in Molfetta Vecchia, uscendone dall’ Arco, per proseguire il suo lungo itinerario, che si svolge comunque tutto nella parte più antica della città.
Tutto terminerà intorno alla mezzanotte, dopo otto ore di processione, quando la Madonna rientra in chiesa con le note dello Stabat Mater.


E’ importante rilevare che durante l’ itinerario, vi sono molti punti fissi in cui vengono suonate sempre le stesse marce funebri, come ad esempio “Fatalità” quando la Madonna esce dall’ arco della città vecchia, “U’ Conza Siegge in via Sigismondo”, il “Triste Tramonto” al largo Domenico Picca”, lo “Stabat Mater” in via Annunziata ed alla ritirata, il “Simon Boccanegra” in piazza Cappuccini, il “Palmieri” ed il “De Candia” in via Margherita di Savoia e così via.

domenica 29 maggio 2022

Częstochowa (Polonia) - La Madonna di Częstochowa


La Madonna di Jasna Gòra

Il tesoro più prezioso di Jasna Gòra è il Quadro Miracoloso della Madonna. Ciò che rese in breve tempo Jasna Gòra il più famoso santuario del paese, che già contava numerosi luoghi di culto mariano, non fu forza della tradizione che vuole l' Evangelista Luca autore del quadro, né la perlazione dei reali che da sempre avevano cara Jasna Gòra: Ciò che rese questo luogo famoso è la presenza miracolosa dell'Immagine che ha sempre richiamato pellegrini da tutta la Polonia e dal mondo intero, come attestano i numerosissimi ex-voto.

Il Quadro della Madonna è il cuore del santuario di Jasna Gòra e la forza che attira folle di pellegrini: infatti questo santuario non è sorto in seguito ad un'apparizione della Madonna, come accade solitamente per i grandi santuari mariani. Senza il Quadro, Jasna Gòra non sarebbe altro che un complesso di edifici, memorie e opere d'arte, certamente belle e preziose, ma prive di vitalità. Il mistero, il fulcro, l'atmosfera del santuario di Jasna Gòra è l'Immagine. Essa è dipinta su una tavola di legno delle seguenti dimensioni: 122 x 282 x 23,5 centimetri, a raffigura il busto della Vergine con Gesù in braccio. Il volto di Maria è dominante nel quadro, con l'effetto che chi lo guarda si trova immerso nello sguardo di Maria: egli guarda Maria che lo guarda. Anche il viso del Bambino è rivolto al pellegrino, ma non il suo sguardo, che risulta in qualche modo fisso altrove. I due volti hanno un'espressione seria, pensierosa, che dà anche il tono emotivo a tutto il quadro. La guancia destra della Madonna è segnata da due sfregi paralleli e da un terzo che li attraversa; il suo collo presenta altre sei scalfitture, due delle quali visibili, quattro appena percettibili. Gesù, vestito di una tunica scarlatta, riposa sul braccio sinistro della Madre. La mano sinistra tiene il libro, la destra è sollevata in gesto di magisterialità, sovranità, benedizione. La mano destra della Madonna sembra indicare il Bambino. La veste e il mantello della Madonna sono ornati con gigli, simbolo della famiglia reale di Ungheria. Sulla fronte di Maria è raffigurata una stella a sei punte. Elemento di risalto sono le aureole attorno ai volti della Madonna e di Gesù, in quanto la loro luminosità contrasta con le tinte dei loro visi.


Il Quadro della Madonna si annovera fra le icone di tipo Odigitria ("Colei che indica e guida lungo la strada"). L'Icona di Jasna Gòra, visualizzando il messaggio biblico, favorisce la riflessione e invita alla preghiera.

Sulle colline calcaree che si estendono da Cracovia fino a Wielun (denominate "tratto dei nidi delle aquile"), affacciata sul fiume Warta, sorge la città di Czestochowa. Si ritiene che il nome della città provenga dal suo fondatore, uno slavo di nome Czenstoch. Nei documenti del XIII secolo essa viene menzionata come un vilaggio di cavalieri chiamato Czenstochowa. Alla fine del secolo XIV ricevette lo status di città.


Nella parte occidentale della città, chiamata nel XIV secolo "Vecchia Czestochowa", si trova una collina alta 293 metri, concessa ai Monaci Paolini venuti dall'Ungheria nel 1382. Su di essa fu eretto il complesso di edifici del santuario e del monastero, circondato da mura e parchi, che porta il nome. di Jasna Gòra (Clarus Mons). Il nome ricalcava quello della loro casa madre a Buda: San Lorenzo in Claro Monte Budensi. L'Ordine di San Paolo Primo Eremita - Monaci Paolini - fu fondato all'inizio del secolo XIII in Ungheria, in seguito al grande movimento eremita che coinvolse tutta l'Europa nei secoli XI-XII. Il fondatore dell'Ordine, il beato Eusebio, cannonico di Esztergom, diede vita alla prima comunità di Paolini, raccogliendo gli eremiti che vivevano nelle foreste dell'Ungheria e della Croazia. La loro vita monastica si modellò sulla regola di Sant'Agostino. Come patriarca scelsero San Paolo di Tebe chiamato "primo eremita".

Nato a Tebe, probabilmente nell'anno 230, Paolo fuggì nel deserto di Tebe a soli 16 anni, durante la persecuzione di Decio ove, secondo la tradizione trasmessaci da San Girolamo, dimorò per 90 anni, cibandosi del pane che gli veniva portato da un corvo. Al termine dalla vita, sempre secondo la testimonianza di San Girolamo, si recò da lui Sant'Antonio Abate, che seppellì il corpo del Santo, deponendolo in una fossa scavata, secondo la leggenda, da due leoni. Per questo motivo lo stemma dell'Ordine dei Monaci Paolini presenta una palma, due leoni e un corvo con un pezzo di pane nel becco.

Fu il principe Vladislao di Opole, pleni-potenziario del re Ludovico di Ungheria per la terra polacca negli anni 1367-1372, a chiamare i Monaci Paolini in Polonia. Essi vennero a Czestochowa nel 1382, ricevettero in dono una piccola chiesa e vi deposero il Quadro Miracoloso della Madonna, che il principe aveva portato dalla città di Belz. La storia del quadro di Jasna Gòra viene tramandata secondo due versioni: una tradizionale, avvolta nella leggenda, ed una storica, ricostruita dai critici d'arte interessati alla genealogia di questa straordinaria Immagine.
Secondo la versione della tradizione, il Quadro fu dipinto dall'Evangelista Luca sul tavolo della casa della Santa Famiglia. San Luca avrebbe dipinto due immagini di Maria, una delle quali pervenne in Italia, e fu conservata a Bologna, ove ancora oggi viene venerata; l'altra quella di Jasna Gora venne traslata da Gerusalemme a Costantinopoli dall'imperatore Costantino e deposita in una chiesa. Sei secoli più tardi, il principe russo Lev, ottenne dall'imperatore il Quadro come riconoscimento dei suoi meriti militari. Durante le guerre in Ruttenia il principe Vladislao di Opole trovò il Quadro, nel castello di Belz, dove veniva venerato come miracoloso. A seguito della grazia della vittoria riportata sui Tartari, portò con sé quel Quadro a Czestochowa, affidandolo alla custodia dei Monaci Paolini. Queste notizie ci sono pervenute tramite un manoscritto, il più antico, intitolato "Translatio tabulae", di cui una copia dell'anno 1474 viene conservata nell'archivio di Jasna Gòra (Notizie tratte dal sito web: http://www.parrocchie.it/). 


sabato 28 maggio 2022

Minervino Murge (BT) - Madonna del Sabato


La Grotta e il Santuario della Madonna del Sabato

Nell'immensa e verdeggiante pianura che si stende verso ponente, chiamato Bosco da Piedi, a due chilometri dal centro abitato, sorge il Santuario dedicato alla Madonna del Sabato, protettrice di Minervino.
Fu costruita verso la metà del XVII secolo su di una grotta basiliana scavata nel tufo, dove fu trovata dipinta sul muro un'immagine della Vergine col Bambino.
Entrandovi si notano tre scalinate in marmo, due laterali per salire al tempio e, l'altra al centro, per scendere nella cripta in fondo alla quale esiste l'altare su cui troneggia l'antichissimo dipinto.
Il dipinto su tufo (alto cm. 80 x 60) risale alla fine del XIV secolo e rappresenta la Vergine col Bambino tra una coppia di angeli. La Madonna è seduta sotto una cortina rossastra fregiata di bianco. La chioma, di un biondo cupo, le scende ondulata sopra le spalle, la faccia ben disegnata, lo sguardo profondo e pensoso come di una madre preoccupata dei propri figli. Con la mano destra sorregge il divino Bambino mentre con la sinistra il suo piedino.
Una leggenda, che per altro è comune a molte altre località, vuole che durante una battuta di caccia, alla quale partecipava anche il Principe Pignatelli, barone della Città, un cane si sia infilato in un'apertura del terreno e non sia più venuto fuori.


Guidato dai latrati dell'animale, qualcuno della comitiva si rese conto trattarsi di una grotta, nella quale fu appunto scoperta l'immagine sul muro.
Da allora la Madonna del Sabato fu proclamata Patrona di Minervino, mentre forse precedentemente lo era stata la Vergine Assunta.
Molto più verosimilmente l'origine e la scoperta del dipinto è da imputarsi a pastori in transumanza.
Secondo tali fonti la Madonna del Sabato sarebbe da identificarsi con la Madonna delle Grazie di Vastogirardi (IS), di cui i pastori molisani erano soliti portare con sè una statua durante i loro tragitti stagionali di transumanza che conducevano verso il nostro abitato.


La prima Cappella rurale fu fatta erigere verso la metà del secolo XVII con il patrocinio del principe Marzio Pignatelli fratello del Papa Innocenzo XII, come si può rilevare dallo stemma in pietra della principesca famiglia, collocato sull'arco che tramezza il lucernario tra le due parti dell'edificio.
Questa prima cappella rurale, secondo un documento del 1657 era costituita da una navata con due altari, di cui uno con l'immagine della Madonna e l'altra con l'immagine di S. Vito.
Il santuario fu completato alla fine del 1700 con la definitiva edificazione della parte sovrastante la grotta, di stile neoclassico, composta da una navata ampia oltre 250 metri quadri, ove si conservano due tele pregevoli: S. Nicola di Bari del pittore fiammingo Hovic (sec. XVI) e la Vergine tra Santa Lucia e Santa Maria Maddalena (1586) dipinta da Orazio Iacobotta da Spinazzola.
In tale tempio superiore esistono due altari il più piccolo dedicato a San Luigi Gonzaga; il grande con il quadro rappresentante la Vergine coronata della Santissima Trinità.
Nella chiesa superiore si può trovare l'immagine della Vergine che fino al 1990 copriva l'affresco di recente restaurato. Alle spalle del Santuario la casa del clero.


La denominazione Madonna del Sabato ci richiama al legame tra Maria e il Mistero Pasquale: nel Sabato Santo solo Maria ha conservato la fede nella Resurrezione del Figlio di Dio; il probabile rinvenimento della grotta nel giorno di sabato ad opera dello stesso Pignatelli, ha stabilito la festa due sabati dopo Pasqua.
Sul coro si possono ammirare gli ex-voto degli ultimi due secoli; molti altri che un tempo adornavano le pareti del Santuario furono distrutti cancellando così un'espressione della religiosità popolare.
Le tele da destra: San Francesco Saverio, il Transito di San Giuseppe, la Vergine tra le due sante (già citato), San Nicola (già citato), sull'altare maggiore l'incoronazione della Vergine tra i santi Michele, Vito e Rosa, ancora a sinistra Santa Rita, San Felice, i santi Gennaro, Vito e Sabino, Santa Rosa da Lima.


Verso il 1880 Mons. Francesco Maria Galdi, vescovo della diocesi di Andria, fece costruire un fabbricato, addossato all'abside della chiesa , destinandone i locali del pianterreno a ricovero dei pellegrini. Nell'aprile del 1934, sotto il vescovado di Mons. Ferdinando Bernardi, il Rettore del Santuario l'Arcidiacono don Giovanni Lacidogna decise di coprire con un quadro in tela l'affresco della Madonna delle Grotte al fine di iniziare un'urgente opera di restauro resa necessaria dall'avanzato stato di corrosione. Come già detto nel settembre del 1990 venne portato a termine il restauro con il concorso nelle spese di enti e semplici devoti e con le perizie ed i sopralluoghi delle Sopraintendenze ai beni ambientali e architettonici di Bari (Articolo tratto dal sito web: http://web.tiscali.it/ProLocoMinervino).

venerdì 27 maggio 2022

Montegiordano (CS) - Beata Vergine del Carmine e Madonna della Pastorella


La Cappella della Madonna del Carmine

I Baroni de Martino, che nel 1748 acquistarono il feudo dai Pignone del Carretto, diedero nuova vita al culto della Madonna del Carmine. A loro è dovuta la costruzione della prima cappella [in località Piano delle Rose]. Infatti, non può attribuirsi ai Pignone del Carretto perché se così fosse, il Toscano, nella sua storia di Oriolo, terminata nel 1695, non avrebbe omesso di tesserne le lodi e, parlando del Castello della Marina di Montegiordano ricostruito dai Pignone, avrebbe, quantomeno, fatto cenno alla Cappella ad esso adiacente dedicata alla Madonna del Carmine. Ma prova, ancor più evidente, è che nel Catasto Onciario del 1743, non vi è traccia della cappella. Sono, quindi, i Baroni de Martino che costruiscono la prima cappella della Beata Vergine del Carmelo, quella collocata poco più giù del Castello. Il loro legame al culto della Madonna del Carmelo è testimoniato anche da un documento del 1812. In questo atto che tratta della solita disputa tra la Comune di Montegiordano e il barone Gaetano de Martino per la proprietà dei terreni e dei frutti, in seguito all’eversione della feudalità, vi è menzionato il Santuario della Vergine del Carmine in contrada il Castello per cui la Comune cede all’ex Barone Gaetano de Martino gli ulivi circostanti il Santuario come “dote ed assegnamento” e per esercitarvi il solito culto. Con i de Martino la Cappella fu adibita solo ed esclusivamente al culto della Madonna del Carmine. Essi seppellivano i loro morti nella Chiesa Matrice, come era uso fare fino al 1846, allorquando fu costruito il cimitero. 


Nel 1897, quando morì il barone Luigi, poiché la famiglia de Martino non possedeva un sacello al cimitero, venne seppellito nella Cappella di San Rocco.
In seguito, dal 1879/1881, quando la proprietà venne acquistata dalla famiglia Solano, la cappella del Carmine fu utilizzata anche come sacello per i membri della famiglia. La cappella fu più volte ristrutturata poiché collocata su di un pianoro particolarmente franoso. L’ultima ristrutturazione risaliva al 1896. 


Vecchio quadro trafugato nel 1980

Nuovo quadro realizzato nel 1981

Nel 1947 ne spostarono, definitivamente, la costruzione su di un pianoro più stabile che è quello dove sorge attualmente. Nel 1980, l’antico quadro che raffigurava la Madonna del Carmine, venne trafugato. Subito dopo, nel 1981, fu realizzato l’attuale quadro dal prof. Mario Sportelli su commissione del sig. Aldo Solano. 

Veduta di Montegiordano (CS) (F.to Cosimo Gatto)


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La Cappella della Pastorella

Nella cappella, situata in località Grassetti, di proprietà della famiglia Formichella, si conserva il quadro raffigurante la Madonna seduta su di una roccia, attorniata da agnelli, che sorregge con un braccio il Bambinello, in piedi sulle sue ginocchia intento a scacciare con un bastone, a forma di croce, un cinghiale nero che sputa fuoco; con l’altro braccio protegge degli agnellini coprendoli, in parte, con il suo manto azzurro. Sulla testa della Madonna, al di sopra dell’aureola, un angioletto ne sorregge la corona. Al di sotto di questa scena si svolge un cartiglio in cui si legge: “Son Pastorella e del Pastor l’Armento or Reggo or Pasco ed or da Lupi esento. Rifugium Peccatorum. A. D. (Anno Domini) 1830 D (don/signore) F (Fisico/dottore) NICOLA ALFANO FONDATORE”. La cappella, costruita dal medico Nicola Alfano (1) per una particolare devozione alla Madonna del Buon Pastore, legata, probabilmente alla presenza di una Missione Redentorista il cui scopo era quello di evangelizzare popoli e campagne, venne ereditata dalla famiglia Formichella (Emanuele) - Sarandria (Anna Maria). Nel 1861, venne utilizzata anche come cappella mortuaria, vi trovarono riposo le spoglie del loro giovane figlio, l’accolito Felice Formichella, morto prematuramente all’età di anni 21 (2).


(1) Di Nicola Alfano medico (¤ 23 settembre 1777 † 19 luglio 1841) posso dire, inoltre, che si era sposato due volte; la prima moglie Lucia de Titta, gentildonna di Nocara, morì il 4 luglio 1825 all’età di 46 anni. Il 23 agosto 1825 sposa, in seconde nozze, Benedetta Sarandria, di anni 31, figlia di Francesco Antonio Sarandria e Lucrezia Lombardi. Benedetta morì il 24 febbraio 1865 e fu sepolta nella Cappella della Pastorella . Non so se da questi matrimoni nacquero dei figli, per quanto abbia cercato non ne ho trovati.
(2) Per una migliore comprensione delle parentele vedi l’albero genealogico. Per ovvi motivi di sintesi, nel grafico ho riportato una ricostruzione parziale mirata ad individuare i legami parentelari tra le persone sepolte nella Cappella della Madonna della Pastorella.

(Entrambi gli articoli sono della Dott.ssa Teresa Carla Loprete, che ringraziamo e sono stati tratti dal sito del Comune di Montegiordano http://www.comune.montegiordano.cs.it).




giovedì 26 maggio 2022

Martina Franca (TA) - La Madonna Pastorella


La Divina Pastora

Nella nicchia a sinistra del presbiterio, della Basilica di San Martino a Martina Franca (TA), si ammira un bellissimo gruppo scultoreo in legno colorato del XVIII secolo raffigurante la Madonna Pastorella. La Madonna, con un volto dai lineamenti delicati, reca qualche attributo dell'Immacolata, come la mezza luna sotto i piedi, la corona di stelle, la stella caudata, ma indossa un abito e un mantello finemente rifiniti con ricami in oro e originariamente, il petaso, il tradizionale cappello dei pastori, ora sostituito dopo il restauro. In alto quattro angeli in volo e sotto un gregge e un agnellino che la Madonna protegge da un lupo che ella stessa trafigge col vincastro, il tipico bastone dei pastori, una perfetta ambientazione arcadica. Il culto della Pastorella di origine spagnola fu diffuso a Martina Franca dai frati Cappuccini o Alcantarini nella prima metà del Settecento. La Divina Pastora fu la Madonna del popolo, non una immagine idealizzata di Madonna che appare ai Santi estasiati, irraggiungibile, intangibile, ma una del popolo a cui era facile rivolgersi direttamente per chiedere protezione, intercessione. L'immagine della Divina Pastora è , infatti, molto diffusa nei quartieri più popolari della città vecchia in tante graziose edicole votive; in lei si confidava anche affinché proteggesse dalle epidemie che decimavano le piante.


Basilica di San Martino
Simbolo insigne del rococò martinese, monumento emblema di un'intera stagione artistica, nonché fucina per i massimi rappresentanti dell'architettura, della scultura e della pittura, la Basilica di San Martino, dedicata al santo patrono, San Martino vescovo di Tours vissuto nel IV secolo d.C., sorge sul sito che ha visto nascere ben tre edifici. Il primo edificio risaliva al periodo pre-angioino, era alquanto modesto, e occupava all'incirca l'area dell'attuale presbiterio. Sulla stessa area in pieno periodo medievale fu edificato il secondo tempio, in stile tardo-romanico a tre navate, grande all'incirca quanto l'attuale chiesa. E infine, a causa nel terremoto del 1743 e del nuovo stile architettonico che ormai alleggiava in città, l'arciprete Isidoro Chirulli, con l'assenso dell'intero Collegio del Capitolo, il 5 maggio del 1747 fece porre la prima pietra dell'attuale tempio rococò.


La progettazione dell'edificio fu elaborata da un ingegnere bergamasco residente a Martina, Giovanni Mariani, mentre la scultura monumentale, che solennizza la verticalità della facciata, fu opera di Giuseppe Morgese e dei figli Francesco e Gaetano Morgese, originari di Ostuni, insieme a Pasquale Montanini, scultore di Francavilla Fontana. In realtà Giovanni Mariani morì alcuni mesi dopo l'inizio dei lavori, quindi tutta la progettazione architettonica e gli elementi ornamentali furono rivisti e perfezionati da Giuseppe Morgese. I lavori del nuovo edificio settecentesco iniziarono gradualmente, senza distruggere completamente la chiesa persistente, al fine di consentire di officiare regolarmente. Infatti, dapprima si abbatté la facciata e man mano che i lavori proseguivano si buttarono giù i muri perimetrali e le colonne, sostituendo il vecchio con il nuovo.


La facciata alta 37 metri e poggiante su una base di 24 metri fu realizzata con pietra calcarea del luogo è ripartita in due ordini e divisa verticalmente da fasce di paraste con capitelli misti. L'elemento di maggior pregio artistico è l'altorilievo di San Martino che taglia il mantello. Il gruppo scultoreo è inserito all'interno di una conchiglia, elemento decorativo caratterizzante del roccocò, che a stento sembra contenere lo scalciare avvitante del cavallo, mentre San Martino con la spada taglia la clamide per donarla ad un mendicante seminudo. Sotto il gruppo scultoreo spicca il portale con timpano spezzato che sorregge due figure femminili. Nell'ordine inferiore sono presenti quattro nicchie con santi. Partendo da destra si riconoscono San Giuseppe con il Bambinello in braccio e il bastone fiorito, e San Paolo che regge l'elsa della spada, San Pietro che stringe le chiavi e infine San Giovanni Battista vestito con pelle di capra. Anche l'ordine superiore presenta altre due nicchie: quella di sinistra ospita Santa Comasia, santa compatrona della città, e Santa Martina a destra. In mezzo alle due nicchie la facciata è traforata da un finto balcone pontificale balaustrato, coincidente con la separazione dei due ordini, e sormontato da un frontespizio spezzato. Lateralmente il prospetto superiore è serrato da due serpentine sormontate da fiaccoloni. L'edificio si conclude alla sommità con un elaborato frontone, anch'esso decorato dai tipici fiaccoloni, recante al centro lo stemma del vescovo di Tours: una corona con una mitra episcopale.

La struttura esterna laterale è molto semplice ed è dotata di due ingressi laterali; uno a settentrione e l'altro a meridione. Tutti e due i portali sono coronati da timpani spezzati con dei cartigli dedicatori. Quello di meridione, con affaccio sul corso, nell'iscrizione latina ricorda il patrocinio di San Martino che salvò la città dall'epidemia bovina e dall'invasione dei bruchi. Mentre l'iscrizione epigrafica del portale di meridione ricorda che il santo patrono salvò la città dai terremoti, dalla peste e dalla carestia. Inoltre lungo il lato meridionale, collocati in alto, compaiono dei doccioni antropomorfi dalle sembianze beffarde. Proseguendo su questo stesso lato, per via Masaniello, si potrà scorgere la mole del campanile tardo-romanico. Il campanile attualmente si presenta mozzato nella parte superiore, in quanto nel 1768 il Capitolo preferì abbattere la cuspide molto alta e l'ultimo piano perché profondamente danneggiati dai terremoti e dai fulmini. Tuttora si può ammirare lungo i quattro lati la tipica decorazione romanica contrassegnata dagli archetti pensili e dalle finestre monofore.

La consacrazione della nuova fabbrica rococò avvenne dopo quasi trent'anni dall'inizio dei lavori ad opera di monsignore Francesco Saverio Stabile, vescovo di Venafro (Isernia), concittadino e canonico della Collegiata. Era il 22 ottobre del 1775. La Chiesa di San Martino ha sempre rappresentato un punto di riferimento importante non solo nell'arte ma soprattutto per i fedeli, infatti, il 22 aprile del 1998 il papa Beato Giovanni Paolo II l'ha elevata a Basilica Minore.
L'interno della basilica si presenta strutturato secondo i canoni della pianta a croce latina con un'unica navata. Varcata la bussola, sulla controfacciata vi sono un cavallo libero da briglie, simbolo della città di Martina Franca, e una lapide commemorativa con iscrizione latina che cita il riconoscimento del titolo di Collegiata concesso dal re Ferdinando II di Borbone nel 1842. Si tratta di una riconferma istituzionale, poiché la chiesa già nel lontano 1594 fu proclamata Collegiata. In alto spicca il finestrone corrispondente al balcone pontificale esterno con la vetrata di Marcello Avenali (1956), raffigurante la Liberazione di Martina dal leggendario assedio dei Cappelletti del 1529. Segue sul lato sinistro, all'interno di un'ampia nicchia dipinta con l'effetto di finti marmi policromi, un Battistero in marmo policromo sormontato dalla scultura del Battesimo di Gesù (1773) opera di Crescenzo Trinchese su disegno di Giovanni Battista Catalano. L'opera fu commissionata dall'abate Tommaso Caracciolo, infatti, lo stemma nobiliare del leone rampante campeggia sia sul cancelletto che sull'archivolto.

Il primo altare sulla sinistra è dedicato a San Girolamo Emiliani o Miani e fu commissionato nel 1775 dalla nobile Maria Idria Miani. La pala d'altare, opera di un pittore anonimo del Settecento, raffigura l'Apparizione della Vergine a San Girolamo Emiliani e riporta in basso lo stemma della famiglia Miani (tre fiori). Lateralmente sulla sinistra vi è una tela di Santa Martina, vergine e martire (XVIII secolo).

Sul pilastro intermedio, fra la prima e la seconda cappella, si colloca un'acquasantiera in marmi policromi la cui metopa è ornata dal bassorilievo di San Martino che concede la pioggia (XVIII secolo). Non a caso il santo patrono veniva invocato nei periodi di lunga siccità.

La cappella successiva, costruita nel 1764, è dedicata alla Natività, infatti, sulla parete di fondo campeggia una tempera dell'Adorazione dei Pastori di Pietro Cataldo Mauro realizzata nel 1777, restaurata nel 1853. In basso si collocano, come completamento dell'opera pittorica, delle statue cinquecentesche in pietra policroma raffiguranti il gruppo completo della Natività, attribuite a Stefano da Putignano, uno dei più grandi scultori rinascimentali pugliesi.

Prima di giungere nell'area del transetto guardando in alto, in corrispondenza delle porte di accesso laterale, si aprono due finte tribune, disegnate da archi bifori sospesi, sul cui peduccio sono aggrappati due graziosi putti, che come sottolineò lo storico De Giorgi nel 1882: "fanno delle prove di ginnastica sui frontoni spezzati".

Sul pilastrone, che separa la navata dal transetto, è affissa in alto una lapide che ricorda la solenne consacrazione del tempio dedicato a San Martino ad opera dell'Arcivescovo Francesco Saverio Stabile il 22 ottobre del 1775.

Siamo nell'area del transetto, dove in seguito ai recenti restauri, sono stati riportati alla luce i dipinti murali delle lunette realizzati all'inizio del 1900. Nelle lunette del transetto di sinistra sono riprodotte le scene della Dormizione di San Martino e dell'Assedio dei Cappelletti, mentre l'unica che si è conservata nel transetto di destra riproduce San Martino e il povero.

Nel transetto di sinistra si trova l'altare in pietra policroma dell'Arcangelo Raffaele con la tela settecentesca, attribuita a Domenico Carella, e raffigurante l'Arcangelo Raffaele e Tobiolo sulla riva del fiume Tigri. Nella testa del transetto si colloca l'altare marmoreo di Cristo alla Colonna. Questo altare fu progettato da Gennaro Sanmartino e realizzato dal marmoraro Giuseppe Varriale, artisti napoletani di grande pregio. Infatti, la loro presenza a Martina Franca dimostra chiaramente come la committenza locale fosse molto avvezza a richiedere artisti di chiara fama provenienti da Napoli, che nel Settecento rappresentava la fucina artistica italiana di maggior spessore artistico ed estetico. Basti pensare che Gennaro Sanmartino era il fratello di Giuseppe Sanmartino, l'autore della celeberrima scultura del Cristo velato, custodita presso la cappella di San Severo a Napoli, e considerata una delle opere più suggestive del barocco italiano.


L'altare fu commissionato nel 1775 da Francesco Saverio Stabile, vescovo di Venafro e natio di Martina, che fece apporre il proprio stemma sulle fiancate dell'altare (stesso blasone si trova sulla facciata di Palazzo Stabile). Sul paliotto dell'altare è riprodotto il Volto sindonico del Cristo, opera di grande maestria, tanto da far supporre l'intervento diretto dello stesso Giuseppe Sanmartino. Nella nicchia è conservata la scultura, realizzata su tronco di ulivo, del Cristo alla colonna (1622) opera di Giacomo Genovivi, scultore di Gallipoli. L'opera è di forte matrice barocca in quando l'espressione del Cristo è carica di un intenso pathos drammatico, riuscendo a suggestionare profondamente il fedele. 

L'ultimo altare rococò collocato del transetto è dedicato alla Madonna di Costantinopoli eretto fra il 1764 e il 1775. La tela raffigura la Madonna con Bambino e l'Arcangelo Michele e San Gaetano da Thiene, anche questa è attribuita a Domenico Carella. Interessante è lo scorcio che si apre ai piedi dei santi; una città avvolta dalle fiamme e circondata da torrioni e cinta muraria, forse potrebbe trattarsi di una vista panoramica della città di Martina settecentesca, sulla quale sotto forma di fiamme si estendeva la protezione della Vergine.

Siamo di fronte all'altare maggiore, in marmo policromo, opera di grande spessore artistico e architettonico. Si noterà la somiglianza stilistica con l'altare del Cristo alla Colonna, infatti, anche questo fu progettato da Gennaro Sanmartino e realizzato dal marmoraro Giuseppe Varriale nel 1773 dietro commissione di Pietro Simeone, noto munifico del Settecento martinese. La nicchia centrale ospita la statua litica policroma di San Martino in paramenti vescovili, scolpita da Stefano da Putignano nel 1518. Sui corni dell'altare spiccano due sculture in marmo bianco realizzate dal grande Giuseppe Sanmartino; sulla destra è posizionata l'Abbondanza, mentre sulla sinistra la Carità. Dietro l'altare si apre il coro ligneo realizzato da maestranze locali nel 1775.

In alto, al centro, spicca la vetrata dell'Incontro di San Martino con il Povero, anche questa realizzata da Marcello Avenali (1956), mentre sulla parete di sinistra è posizionato il dipinto ad olio di Michelangelo Capotorto raffigurante la Pentecoste (1769), e di fronte, sulla destra, si apre la grande macchina sonora dell'organo (1927), celato da un'immensa balconata lignea con decori dorati.


Prima di proseguire la visita del lato destro della basilica, introduciamoci nella cappella del Santissimo Sacramento, che si apre sulla sinistra dell'altare maggiore. Nella parete di sinistra, adiacente all'ingresso della cappella, come detto prima, vi è la statua della Madonna Pastorella risalente al Settecento. 

Entriamo, ora, nella cappella del Santissimo Sacramento, detta anche il Cappellone, realizzata fra il 1776 e il 1785 per volontà della Confraternita del Santissimo Sacramento, nata in simbiosi con la chiesa fin dalle origini e documentata fin dal 1544 (l'oratorio attuale si trova alle spalle della chiesa). Il Cappellone fu abbellito con stucchi policromi e il marmoraro napoletano, Raimondo Belli, realizzò la macchina d'altare, completata dal grande dipinto ad olio di Domenico Carella nel 1804 e raffigurante l'Ultima Cena. L'opera è firmata e datata in basso con la seguente scritta: DOMINICUS CARELLA / SENIOR FECIT 1804. Il dipinto esprime la piena maturità artistica del Carella che rivoluziona lo schema iconografico dell'ultima cena inserendo la scena del banchetto, riccamente apparecchiato, in mezzo ad un possente colonnato e animandola con servitori indaffarati e con angeli svolazzanti che reggono un pesante tendaggio, quasi fosse una scena teatrale. Al centro la lucerna, sorretta da un groviglio di angeli, illumina i gesti solenni dell'istituzione dell'eucarestia. Domenico Carella è anche l'autore dei Quattro Evangelisti dipinti nelle quattro vele della cupola nel 1785.


Riprendiamo la visita della basilica, uscendo dal Cappellone e spostandoci sulla destra del presbiterio. Qui si trova il Tesoro della Basilica. All'interno di un armadio a muro sono custoditi i preziosi arredi liturgici della basilica. Si annovera un numero consistente di calici, turiboli, ostensori, cartaglorie, navicelle, reliquari ecc, ma in maniera specifica emergono le statue reliquario di San Martino e Santa Comasia, santi patroni della città. Le due statue sono lavorate in argento cesellato, sbalzato e bulinato con dorature. Le due opere provengono dalla bottega napoletana dell'orefice celeberrimo Andrea De Blasio che nel 1700 realizzò San Martino e nel 1714 Santa Comasia. Un altro importante elemento è il Reliquario di San Martino, foggiato dell'orafo napoletano Antonio Attingendo nel 1712.
Siamo nel transetto di destra, dove si colloca l'altare in pietra di Santa Comasia eretto nel 1764 e contenente la statua reliquario in legno dorato della Santa, opera di botteghe leccesi del XVII secolo. Questo è l'unico altare in pietra ad essere ornato da due angeli porta candelieri, quasi a voler sottolineare l'importanza religiosa, dato che nel tabernacolo, all'interno di una cassa in zinco sono conservate le reliquie di Santa Comasia, traslate qui dal cinque novembre del 1764. La porta adiacente conduce alla sacrestia, che oltre a custodire opere pittoriche di notevole importanza, mette in evidenza la struttura tipicamente medievale del vano.

Nella testa del transetto si trova l'altare neoclassico dedicato a Maria Ausiliatrice la cui statua lignea è stata realizzata nel 1919 e si adorna di una corona in oro realizzata da Daniele Libardi, orafo martinese. L'ultimo altare presente nel transetto è quello dedicato a Santa Martina, che fu eretto in pietra fra il 1770 e il 1775. Ospita nella nicchia Santa Martina, considerata "patrona meno principale", anche questa realizzata in legno da botteghe leccesi nel XVIII secolo. Proseguendo verso l'uscita principale della chiesa si potrà ammirare il pergamo in legno sospeso a muro (1830), e l'altare dell'Addolorata, eretto nel 1784, fu rifatto nel XIX secolo con l'inserimento della scultura ottocentesca dell'Addolorata.


Sul pilastrone, prima dell'ultima cappella, si trova la seconda acquasantiera il cui bassorilievo raffigura Mosè trae l'acqua dalla roccia (XVIII secolo). L'ultima cappella è dedicata al Santissimo Crocifisso. L'altare in pietra, elevato nel 1765, ospita al centro il Crocifisso ligneo attribuito allo scultore pugliese Riccardo Brudaglio in pieno Settecento. Sulle pareti laterali sono posizionati dei dipinti settecenteschi del Calvario di Gesù.
L'ultimo sguardo, prima di uscire, si sofferma sulla lapide, laterale alla bussola, che ricorda l'elevazione della chiesa a basilica nel 1998 per volontà del Beato Papa Giovanni Paolo II (Notizie tratte dal sito web del Comune di Martina Franca, Le Chiese).