Il Monte Saraceno e la Caggia
Ultimamente, da pochi mesi, la "Caggia" si è rivestita di un nuovo "look". E' stata accuratamente revisionata e liberata da sovrastrutture che nel corso degli anni ne avevano oppresse la snellezza e le belle linee architettoniche con spessi strati di vernici e oggetti estranei. Ora è ritornata ad essere robusta, severa, un vero gioiello d'arte, quali i primi facitori, i Benedettini, la costruirono nove secoli fa. Il Santuario "Maria SS.ma del Monte Saraceno", sorge a circa 1320 m. s.l.m., appollaiato sulla cima di uno sperone roccioso a ridosso del Volturino. La sua collocazione è quanto mai suggestiva. Il Tempio domina tutta la vallata, che, dal monte di Viggiano si allarga e si stende fino a Caperrino, in un mare di verde interrotto da larghe radure, e attraversato dal fiume "Piesco".
Il tempio, dall'alto del roccione bianco, occhieggia candido tra il verde, come un faro di luce abbagliante. E' un punto di riferimento per quanti attraversano la valle, o si dedicano alla coltura dei campi, o custodiscono mandrie e greggi.
La denominazione di "Monte Saraceno", alternata all'altra di "Castel Saraceno", riportata in vari documenti, è di origine ignota. Con ogni probabilità, da alcune tracce che tuttora si intravedono, si può pensare che lassù sorgesse una postazione militare, prima Longobarda poi Saracena.
I Monaci Benedettini vi edificarono, poco distante dai ruderi della presunta postazione militare, l'attuale tempietto. La sua forma architettonica, estremamente semplice, è caratteristica ed unica nel suo genere. E' una struttura a botte , le cui doghe sono costituite dalle robuste muraglie a strapiombo sui dirupi che la circondano.
Quando ancora non era affiancata dalla costruzione posta al lato sud, il tempio, visto dagli ultimi orizzonti, sembrava un guscio, con al vertice un piccolo arco, ospitante una campanella dal suono squillante, che spandeva onde argentine all'infinito.
Si accede al Santuario per una stradella breve che si inerpica ripida e difficile su uno fondo ghiaioso e sdrucciolevole, e che sbocca improvvisa di fronte al Tempio. E' tradizione, rigidamente osservata, che non si entri nel luogo sacro senza aver prima percorso per tre volte il suo perimetro, salmodiando e cantando nenie, che si rifanno ai primi tempi dei padri Benedettini.
Dopo un viaggio, fatto a piedi, lungo e faticoso, con l'appendice dell'ultimo tratto erto e scabroso, il pellegrino varca la soglia del Santuario, e si trova dinanzi la Sacra Effige della Gran Madre di Dio.
La povertà e la semplicità del Tempio sono estreme. Sulle pareti tinte a calce, non una linea, non un segno: sono assolutamente nude! Eppure la luce chiarissima che inonda l'aula, attraverso il largo vano del portone, crea riflessi d'oro in ogni angolo e spande raggi luminosi che i cristalli dell'urna riflettono, tinti d'azzurro, sul volto dolcissimo della Vergine.
L'attuale statua è una ricostruzione fatta con i resti dell'antica copia del simulacro ligneo, dorato, bizantino della Madonna detta "de Plano", che i Benedettini apprestarono per il Monte Saraceno. La copia rovinò, in uno alla chiesa parrocchiale, nella quale era custodita, in seguito al terremoto del 16 dicembre 1857.
L'artista napoletano che ne ricompose i pezzi, recuperati tra le macerie, legandoli con cartapesta, diede all'effige una espressione dolcissima ed intensa. Nella mano sinistra ha una rosa d'oro, mentre la destra è in atto di mostrare il Figlio. E' seduta con il Bambino in piedi, tra le ginocchia.
L'urna che la custodisce, detta comunemente "Caggia", dal latino "capsula", è un'opera finíssima di prestigiosi artigiani locali, ricchi di fantasia e dalle mani esperte. E' di legno durissimo e pesante, è scolpita a mano, le lesene delle colonne, i capitelli, le basi e la cimasa sono perfettamente legate in una armonia di linee e di proporzioni, nobile e classica.
E' certamente una riproduzione fedele dell'antica "Caggia", creata molti secoli prima, e che i padri ci hanno tramandato.
I Marsicoveteresi, per secolare tradizione, mai interrotta, la prendono là dove svettava, alto ed imponente l'indimenticato "FAGGIO A SEI", e se la trasportano, con pietà e devozione, fino alla "Piana", ove i calvellesi, senza concedere neppure un metro in più, la riprendono formando la famosa licatena", non solo per facilitarne l'ascesa, ma per esprimere un significato profondo: l'unione dei cuori, stretti nell'amore alla Regina dei Cieli.
Il Glorioso simulacro è stato incoronato dal Reverendissimo Cap. Vaticano, il 9 settembre 1947, in una apoteosi di innumeri pellegrini, accorsi da ogni parte. E' questa una data memorabile nella pur gloriosa storia del Santuario. Da allora i pellegrinaggi si sono moltiplicati, e la devozione è cresciuta notevolmente. L'oro occorrente per le corone della Vergine e del Bambino, fu offerto in una entusiastica gara, da tutte le famiglie calvellesi e dai numerosissimi devoti dei paesi limitrofi. Se ne raccolse a sufficienza: circa 2 Kg. Si ottennero due diademi, confezionati e cesellati da un ottimo orafo di Napoli. Vi furono incastonate numerose pietre preziose di grande valore e bellezza.
I festeggiamenti, arricchiti da usanze, e da un folklore contenuto e distinto, si celebrano la seconda domenica di maggio, quando la statua viene trasportata dalla chiesa parrocchiale al santuario, e l'8 e 9 settembre, quando vi fa ritorno.
I calvellesi sparsi per il mondo, ritornano al paese natio, e partecipano attivamente ai festeggiamenti.
Intorno al Santuario, alla Sacra Effige, alla "Caggia" e al territorio circostante, sono fiorite, lungo il corso dei secoli, molte credenze, nate dalla fantasia popolare, che, se denotano il fervore che animava le passate generazioni, e la grande devozione alla Vergine, non resistono ad una severa indagine, e ad una serena critica storica. Così la cosiddetta "Grotta dell'Eremita", non ha mai ospitato nessuno.
E' un incavo nella roccia poco sottostante al Santuario, affatto profonda. S'affaccia su un dirupo a strapiombo di un baratro quasi inaccessibile. La credenza, nata non si sa quando, la vuole sede di un religioso solitario, che vi avrebbe trascorso la vita nella solitudine e in contemplazione. Ma l'ubicazione, la strettura e i dintorni lo escludono del tutto.
Altrettanto si dica del "ritrovamento miracoloso" della statua, in seguito ad un sogno; e l'ubicazione della prima chiesetta, che dall"acqua delle bocche" o da altri siti più o meno lontani, sarebbe stata trasferita nell'attuale sede. Le notizie che si hanno della collocazione da sempre là ove si trova, sono così certe che non lasciano spazio ad alcun dubbio.
E' pure credenza, tuttora viva e attentamente seguita, che dal viso della statua, quando a settembre torna in paese, si può pronosticare il proprio futuro e quello della comunità, in senso positivo o negativo, a seconda di come ognuno crede di vederla atteggiata a benevolenza o a tristezza.
E' spenta, invece, la credenza , durata moltissimi anni, e fino alla costruzione del ponte nei pressi del mulino, che il Simulacro resistesse a farsi trasferire dal paese al tempio sul Monte Saraceno, imprimendo ai portatori, al momento dell'attraversamento del fiume "La Terra", movimenti avanti e indietro e quasi inchiodandoli nelle acque. Ma quando un Arcivescovo, volendo vederci chiaro, obbligò i sacerdoti a prestare le proprie spalle per l'attraversamento del fiume, i misteriosi, alterni movimenti cessarono, e l'altra riva fu raggiunta facilmente.
LA CAGGIA
La "Caggia" (dal latino "capsula"=urna) è la Madonna del Monte Saraceno, la celeste Regina che il popolo si elesse incoronandola il 9 settembre 1947. E' sempre stata così, da quando i Benedettini, fondatori di Calvello, la strutturarono nella forma attuale, ricca di eleganti elementi architettonici, scolpita in un legno duro e forte, così come tetragono a tutti gli eventi, è il carattere di questo popolo lavoratore intelligente, perseverante e tenace, sobrio, capace e fantasioso.
E' lavorata con arte e delicatezza; è rifinita con cura. Le lesene delle colonne, i capitelli, le basi e la cimasa sono perfettamente legati in un'armonia di linee e di proporzioni nobile e classica. Ha subito nei secoli le sorti della travagliata storia calvellese, segnata da gravi calamità naturali. Nel disastroso terremoto del 1646 rovinò in uno alla Chiesa parrocchiale e fu rifatta così com'era. Ancora una volta nel sisma del 16 dicembre 1857 fu travolta tra le macerie del sacro tempio. Fu ricostruita secondo l'antico originale nel 1858. Fortunatamente le forti scosse telluriche del 23 novembre del 1980, pur nel rovinio di cornicioni e intonaci, non l'hanno scalfita.
Quando da maggio a settembre la "Caggia" è lassù, a 1320 m., nella pace infinita, nel silenzio e tra il verde, i calvellesi vi si recano ansiosi. Per gli emigrati poi, tornati per poco a visitare i parenti, "l'andare al Monte" è un momento obbligato, programmato ed atteso, tra i più commoventi, specie quando dopo l'aspra, anche se breve scalata, la si affronta bella, radiosa e santa nel suo tempio.
Sempre così da circa un millennio, e non da 125 anni, come erroneamente è stato affermato recentemente da incompetenti, facili e superficiali alle date mai studiate. Eppure a fine agosto del 1981 una mano sacrilega osò violarla, scardinandone la chiusura e asportando la statuetta del Bambino Gesù, con le corone e gli altri monili aurei della Vergine.
L'impressione e il rammarico dei fedeli furono enormi; l'offesa alla fede e alla devozione dei calvellesi assai cocente.
Ma i calvellesi ancora una volta seppero superare quel difficile momento. Si strinsero compatti, uniti dalla comune devozione, decidendo di ridare alla loro celeste Regina il suo Figlio e gli aurei serti trafugati. Purtroppo circostanze diverse, non imputabili a persone, congelarono per vari decenni tali propositi, pur sempre vivissimi negli animi di tutti, fino all'8 settembre del 1986, quando dando inizio alle celebrazioni quarantennali della prima incoronazione, tra il tripudio festoso più esaltante e incontenibile di un numero incalcolabile di fedeli, accorsi da ogni parte, le artistiche corone più ricche e preziose, abilmente cesellate, venivano deposte sulla Vergine e il Figlio dall'eminentissimo signor Cardinale Corrado Ursi, arcivescovo di Napoli, assistito dagli eccellentissimi arcivescovi di Potenza e Acerenza: Giuseppe Vairo e Francesco Cuccarese.
La Statuetta del Bambino era stata già rifatta da un abile artista altoatesino che con abili mani ne siglava le proporzioni, la bellezza e il fascino, riproducendola identica e precisa come quella derubata.
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